
A Udine ci sono due certezze della vita: la polenta che consola e il tifoso dell’Udinese che soffre come fosse nato per una tragedia greca scritta male. Perché qui, tra i campi di mais e il ricordo nostalgico di Totò Di Natale che appare come una visione mariana sulle pareti delle osterie, l’unica vera poesia è lamentarsi. Ma lamentarsi forte, con orgoglio, col petto in fuori come un fagiano che non sa volare ma pretende comunque di guardare le aquile negli occhi.
E in mezzo a questo teatro esistenzial-calcistico c’è lui, il protagonista non richiesto del dramma: Kosta Runjaic.
Che poi, nessuno sa pronunciare correttamente il cognome. La metà dice “Rugnač” come fosse un problema della pelle. L’altra metà lo chiama “Runic”, come una runa vichinga invocata per salvare la salvezza. Ma tanto, chi se ne importa del nome: l’importante è dargli la colpa. Perché a Udine è così: si nasce col senso del dovere, la dignità granitica e un manuale tascabile intitolato “Come criticare il mister senza sapere esattamente cosa voglio”.
Il tifoso medio bianconero non ha bisogno di analizzare le partite. Lui sa. È nato imparato, come i gatti. Sa che la colpa non è mai delle cessioni estive, dei prestiti invernali, delle promesse di Amazon Prime che durano 30 giorni o dei procuratori che girano per lo spogliatoio come venditori di pentole.
No, la colpa è del mister. Sempre.
Se la squadra vince? “Eh, ma senza convinzione.”
Se pareggia? “Solita mentalità da piccolo cabotaggio.”
Se perde? “El va mandât a cjase, basta, via, fora dai maroni.”
E Runjaic, pover’anima, lì che lavora.
Studia.
Analizza.
Si sveglia la notte in un sudore freddo chiedendosi se può trasformare un prestito random dal pianeta Watford in un falso nueve che pressa come Gattuso e pensa come Pirlo.
Ma niente. Perché lui è l’unico che lavora seriamente in mezzo a un mercato delle vacche più vivace della Fiera di Codroipo in un giorno di luna piena.
Altrove i giocatori si trasferiscono per progetti.
A Udine si trasferiscono per… audizione.
È come partecipare a un talent show.
“Benvenuto all’Udinese! E ora dimostra tutto quello che sai in 6 mesi, così poi ti vendiamo al miglior offerente che ha visto il tuo video su YouTube!”
E tu, mister, arrangiati. Prendi sto ragazzo di 19 anni che non parla italiano ma ha promesso che è un fenomeno su Football Manager.
Mettilo in campo, fallo crescere, fagli amare il territorio, fategli capire che il frico non è un Pokémon.
Poi, quando finalmente sta capendo il concetto di marcatura a uomo, CIAO — volo per Londra. O Milano. O Riyadh. Dipende dove tira il vento del mercato.
E Runjaic rimane lì, con la lavagna tattica e uno sguardo tra il mistico e il disperato. Tipo professore di matematica al primo giorno di scuola tecnica.
E i tifosi?
I tifosi guardano, osservano, giudicano.
Come anziani in piazza San Giacomo davanti a un cantiere:
“Ah, se fasèvin cussì ai timp di Guidolin…”
Sì, perché Guidolin è diventato un’entità metafisica.
Non un uomo.
Un concetto platonico.
La perfezione tattica del passato che ritorna come fantasma ogni domenica.
Il tifoso friulano vive nel trauma eterno di Guidolin lasciato, come un amore d’infanzia mai superato.
Runjaic?
Lui fa meditazione tattica, muta formazione, modella il caos.
È l’unico che ha studiato.
L’unico che non usa Udine come trampolino ma come progetto.
L’unico che guarda la situazione e dice: “Io però ci credo.”
E i tifosi rispondono: “Eh… ma non basta crederci, bisogna segnare.”
Giusto. Bisogna segnare.
Come se fosse facile.
Come se bastasse un click mental-motivazionale su Instagram.
E lui lì, con la compostezza di un monaco tibetano, la pazienza di un casellante della A23 a Ferragosto dinnanzi ad una processione di mediocrità. Una coda di presunti addetti ai lavori, sudati e pieni di livore, innervositi dall’afa, da bambini che gridano, dallo stress accumulato in un anno di lavoro infruttuoso. Tutti che gli gridano lo schema giusto, tutti con la formazione migliore. E il casellante “yugoslavo” è l’unico pagato per decidere chi passa e dove. Ci vuole rispetto.


