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Noi, generazione plava

redazione 31 Marzo 2016
dejan_savicevic
dejan_savicevic

Stimolato dal fraterno amico Roberto Mete, ho deciso di dare un’occhiata al sito dedicato alla manifestazione goal a grappoli, organizzata dal bravo Massimo Falato a Cormòns. E cogliendo fior da fiore, mi sono ascoltato l’intervento che nel 2014 ha visto coinvolti Federico Buffa, voce di Sky, e il nostro Sergio Tavcar. E ho pensato che la mia generazione, la плава генерација, la generazione azzurra, col ****o che ha perso!

No: non mi riferisco alla maglia degli italiani. Ma a chi, come me, in un’epoca (anni settanta, ottanta) lontanissima e così vicina seguiva lo sport, quello vero, dalle frequenze di Telecapodistria.

E i plavi erano i nazionali jugoslavi: calcio, basket, anzi  nogomet, kosarka. Il mondo andava ancora a sessanta l’ora; i selfie si chiamavano autoscatti ma essendoci le pellicole si faceva più attenzione a qualità e quantità; l’essemmesse all’amico erano sassolini sulla sua finestra, e al posto della playstation c’era il playground. L’Italia di calcio era fortissima, ma solida e pragmatica. E gente come me, svenevole per una rabona più che per una diagonale, delirava per alcuni di quei giocatori plavi di calcio, tra i quali quelli modestamente impostati erano già campioni autentici.

Almeno due vendemmie di grandi calciatori: la prima capitanata dal nostro Ivan Šurjak in arte Ivica, col portiere-goleador Pantelić, con i gemelli Vujović, con il terzino croato Gudelj… e Poi quella di Stojković confidenzialmente Pixie, di Slisković, di Savicević e Mijatović, di Boban e…

Ed erano familiari, per le gare trasmesse al sabato, nomi di squadre come Zeljezničar, Črvena Zvezda, Partizan Beograd, Borač od Banja Luka…

Plavi erano soprattutto i cestisti più talentuosi d’Europa: solidi i sovietici, con il gigante Tkachenko, Sergej Belov, il povero Sasha Belostenny, il metrònomo Salnikov tutti agli ordini del sergente maggiore Hartman di Mosca, al secolo Aleksandar Gomelskyi.

Ma sui campetti, cercando tiri da fuori e penetrazioni folli, ché ancora l’arco del tiro pesante era cosa esoticamente a stelle e strisce, mormoravamo fra noi e noi altri nomi: Dragan Kićanović, Creso Ćosić, Mirza Delibasić, il pelosissimo agonista Andro Knego, Praja (senza nemmeno il cognome) e in seguito i fratelli Petrović, Aza prima, e poi Dražen, vrag od Šibenka.

Ho in mente delle foto. Kićanović appoggiato a un muro, piede sulla palla, mentre fuma una rilassante paglia; il diavolo dalla linea della carità, lingua penzolante all’angolo destro della bocca; Praja in sospensione, mentre il marcatore proteso gli arriva più o meno alla cintola. La loro balcanicità gli impedì di vincere tutto ciò che si poteva. Come gli europei di Nantes del 1983 dove l’Italia di Meneghin, Villalta, Marzorati e Caglieris li fece fuori in semifinale e dettero di matto inscenando una vergognosa caccia all’uomo: noi non li giudicammo, fummo felici per i nostri ma capimmo, sebbene solo adolescenti, che quel cestistico carpe diem prevedeva sempre recite fuori copione, nel bene e nel male.

Triste notare come tanti di quegli eroi se ne siano andati prematuramente, primo fra tutti il demonio di Sebenico che ci lasciò orfani compiuti ventinove anni solamente. Ma ancora oggi ricordarsi del record di punti di Dalipagić all’Arsenale di Venezia, della miracolosa Gedeco 5-3-5, dei riccioli e dei baffoni di Kićanović, significa appartenere alla generazione plava. Ci sarò, alla prossima edizione della manifestazione cormonese.

Dovessi per fortuna incontrare Sergio Tavcar ne pretenderei le scuse, formali e sentite: per averci fatti ammalare di palla al cesto; per averci costretti a tirar notte a seguire le partite del campionato jugoslavo di basket… Come quella terribile differita di, vado a memoria, Borać Čačak – Jugoplastika Spalato, terminata a mezzanotte dopo che i serbi inscenarono, col pubblico di un catino ribollente maleducazione, una recita fatta di falli e proteste a gara già persa. All’epoca, pochi se lo ricordano, vigeva la regola dei “due tiri liberi col beneficio del terzo” e i venti minuti non finivano più.

Al termine Sergione se ne uscì con un “caro telespettatore, se hai avuta la pazienza di essere ancora lì ti ringrazio e ti auguro una buonanotte”. Per averci resi dipendenti da frasi come “sbaglia un tiro che qualsiasi comune bipede avrebbe segnato”, oppure “mi dicono che questo Gus (pronunciato Gàs) Binelli abbia giocato contro i migliori centri universitari americani. È evidente che all’esame di rimbalzo lo hanno bocciato”. Mi chieda scusa, Tavcar, se ha fatto di me un cestomelomane di tal fatta.

Ovviamente scherzo. Lo ringrazierei. Per avermi fatto innamorare di questo sport, assieme agli eroi di cui ci raccontava le gesta. A Roberto, l’altra sera, dissi “sono cresciuto a pane, pallaspicchi e Tavcar”. Lui, sguardo benevolo, mi rispose “Franco tutti noi siamo cresciuti nella stessa maniera”. A volte basta poco per sentirsi meno soli. Per provare appartenenza alla plava generacija.

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