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PUNTATA NUMERO QUARANTOTTO. SANT’ELENA LAVORENTA. PARTE SECONDA.

Rachele Pellegrinuzzi 2 Giugno 2015
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biel-lant48La chiamavano Sante Bondance. Sant’Elena con questo epiteto ricorda gli anni in cui, a Rubignacco di Cividale (UD), si festeggiava la sagra dell’anguria, frutto che, simbolicamente, per la sua piena rotondità e per l’abbondanza di semenza, delinea con efficacia il bendiddio e la prosperità. Sant’Elena ricorda anche processioni di inizio Novecento, quando c’erano estati torride e secche e si implorava un po’ di ploa – di che buena – par no fâ secjâ duta la campagna. Con i tempi…incerti (è puro eufemismo questo termine, son d’accordo con Voi) che corrono, il culto di Elena potrebbe riecheggiare nelle preghiere di un numero crescente di devoti contemporanei…

Ci eravamo lasciati al termine della puntata quarantasette con un sospeso: diamo ora, finalmente, concretezza e riscontro ad ogni supposizione fatta nel mentre varcando la soglia dell’edificio e lasciandoci accogliere dall’Antico che ci respira sulle guance e ci sussurra nelle orecchie.

Parti di quella che dev’esser stata una ricca parete affrescata fanno capolino e ci parlano, dopo gli ultimi restauri del Ventunesimo secolo.

Una Madonna dei Mestieri si circonda di tanti tondi, ognuno dei quali si offre a noi come una porta di bottega aperta. Sbirciamo dentro, tant par savê ce c’al sucêt inte butega: un microcosmo a tinte calde di operose figure intente nella loro arte si svela subito. Ecco il sarto, con una vestina bianca appena finita; la tiene tra pollice e indice e osserva con occhio attento se le cuciture fanno grinze o se la stoffa obbedisce loro dolcemente. Ecco il mugnaio, con sacconi di farina preziosa per campare. Ancora si intuisce il contorno di una comare, una levatrice, perché la comunità cresce e prolifica e ci vogliono mani esperte ad aiutare le madri in questo fondamentale momento della loro vita. C’è anche il purcitâr, il norcino! Siamo pur sempre in Friuli, anche se vecjo vecio, e non può mancare una fetuta di salamp o una luiania saurida! Il bottaio poco distante provvede, poi, a fornire capienti contenitori in cui conservare chel bon che innaffi le libagioni e no fasedi secjâ la pivìda!

Il mercante, il maniscalco, il contadìn, il fornaio e chissà quanti altri uomini e donne di un tempo andato lavorano alacremente su quella parete, vestiti nei loro begli abiti basso – medievali, circondati da decori e da sacre figure che li preservano dai mali e li benedicono.

La Madonna delle mille artesanìe protegga chi lavora e fa prosperare il paese; d’altro canto, chi lavora rispetti, operando con sapienza, diligenza, osservanza, le regole del buon fare e dell’onestà. In queste due righe sta, probabilmente, il messaggio che arriva diretto a chi varca la soglia di Sant’Elena e butta l’occhio proprio in quei tondi redivivi in parete: il lavoro non è il cieco produrre per arrivare primi (ci sarà, prima o poi, qualcun altro che sarà più bravo, più competitivo, come si dice adesso), per ingomeasi e scjafoiasi di roba, per accumulare denari che fan perseguire falsi miti e idoli di latta; il lavoro è esistenza terrena che si svuluça, è il viaggio della personalità di ognuno che ambisce a diventare più piena e consapevole, mentre tenta di vincere le problematiche del presente dandosi speranze per un futuro meno incerto.

Parole sante, siamo in chiesa!

Carta canta, anzi, pitùra cjanta! Il bello degli affreschi, soprattutto di quelli delle nostre splendide chiesette campestri furlane, è leggerli come se fossero pagine di un libro illustrato, guardando bene quelle aggraziate faccine intente a vivere per noi ancora una volta la loro storia, pur se su un pezzo di intonaco: danzano immortali, testimoniando, con la loro bellezza, che l’Uomo – da che mondo è mondo – si trova ogni giorno a dover rispondere sempre alle stesse domande di realizzazione di sé e di sostentamento del corpo e dello spirito. Diamo pure ascolto all’affresco: resuscitato da strati di oblio ha vinto le censure dei secoli e, pur se frammentario, è ancora qui per l’ultimo Viandante.

…e ricordiamoci che, da queste parti, di pellegrini e viandanti se ne intendono, dato che la nostra gleseuta anticamente era un eremo che offriva riparo e ristoro a chi, inquieto, cercava la propria Luce. Sic est.

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