
Ovvero: una serata elegante e combattiva, dove il pop diventa classico e l’attivismo si fa partitura. Ma a Udine, si sa, anche la sinfonia si accompagna con una birra media e il profumo di Autan.
UDINE – Che cosa ci fa una signora della musica italiana con un’orchestra sinfonica al castello di Udine, sotto un cielo che promette poesia ma minaccia umidità?
Risposta semplice: Fiorella Mannoia. Anzi: Fiorella Sinfonica, la versione 70enne (e quindi ancora più grintosa) della cantante romana che da decenni sa combinare voce, impegno e una capigliatura che sfida le leggi della fisica.
La tappa udinese del tour “Fiorella Sinfonica – Live con Orchestra” ha visto il parco del Castello trasformarsi in un piccolo teatro all’aperto. Solo che invece dei velluti rossi e delle poltrone numerate, c’erano sedie di plastica, gente in infradito (e in lino, perché è pur sempre estate), e un’acustica che miracolosamente ha retto, nonostante i venticelli di nord-est che amano sabotare i fiati più delicati.
L’atmosfera? Magica. Nonostante tutto. Anche le zanzare, a quanto pare, avevano prenotato con largo anticipo e non si sono fatte scoraggiare nemmeno dai flauti traversi.
L’orchestra dona quel tocco di eleganza e resilienza.
Sul palco, una formazione sinfonica completa: archi, fiati, percussioni, diretta dal maestro de Bernardis, uno con l’aria di chi sa che il vero nemico non è l’errore di tempo, ma il microfono panoramico che fischia quando meno te l’aspetti.
Gli arrangiamenti, curati con precisione quasi svizzera, hanno vestito i brani iconici della Mannoia di nuove sfumature: “Quello che le donne non dicono” è diventata un lamento nobile, “Sally” ha oscillato tra Mahler e De André, mentre “Combattente” ha guadagnato un’intro che sembrava l’inizio di un’opera tragica — con tanto di timpani.
La voce: limpida come il sarcasmo e dolce come la brezza che agita le bandiere prima della rivoluzione.
Fiorella, come sempre, ha cantato con una lucidità che ti fa dimenticare i decenni (e le classifiche). A 70 anni suonati (anche se lei ne canta 30 alla volta), sale sul palco come se fosse a casa sua, con un microfono invece di un telecomando. E tra un brano e l’altro, ironizza, denuncia, racconta. Sul palco udinese, ha parlato di diritti, di donne, di guerre ipocrite e di chi ha ancora il coraggio di “disobbedire” — senza scadere nella retorica da festival di sinistra anni ’90.
“Siamo qui con un’orchestra… perché ormai la rivoluzione la facciamo in quattro quarti.”
Una battuta, una verità. E uno sguardo che taglia più di un’arpa in fortissimo.
Il pubblico: misto friulano
Non mancava nessuno: signore eleganti con ventagli strategici, giovani armati di Spotify ma educati alla buona musica, uomini che si erano convinti a venire “perché c’è l’orchestra, dai, vediamo com’è”. Tutti uniti da un certo stupore: perché, diciamolo, ascoltare “Il cielo d’Irlanda” mentre davvero sopra di te hai il cielo di Udine, è un’esperienza che vale i soldi del biglietto (più i 4 del prosecco plastic-free al chiosco accanto).
In sintesi?
Un concerto che è stato più di un evento musicale. È stato un manifesto poetico in tempo reale, tra virtuosismi orchestrali, brani che hanno fatto la storia della canzone d’autore e il sorriso obliquo di una donna che continua a cantare “non sono mai stata brava a mordermi la lingua” — e menomale.
Fiorella Mannoia al Castello di Udine non è stata solo un concerto: è stata una lezione di stile, di resistenza, di musica che sa ancora cambiare il mondo — anche solo per una sera, anche se solo per chi ha saputo ascoltarla tra un pizzicato d’archi e un battito d’ali.
E mentre il pubblico si allontanava nella notte udinese, tra sampietrini e qualche bicchiere di ribolla gialla, qualcuno sognava che la rivoluzione in atto, riportasse l’arte fra le braccia della musica.
Fabrizio Colombo