
Se Parmenide avesse potuto leggere il codice sorgente di un’intelligenza artificiale, probabilmente avrebbe gettato il papiro in un fuoco concettuale e, con aria ieratica, pronunciato: «Questo non è». Perché l’essere, nell’accezione parmenidea, è eterno, immutabile, unico, e soprattutto — ed è qui il punto — è. Non simula, non predice, non approssima. È.
E invece ci troviamo, in questo nostro tempo digitalmente eccitato, a celebrare con fervore messianico l’avvento di una macchina che finge di sapere, simula di pensare, e con inaudita eleganza di calcolo, produce parole su parole — e nulla di ciò che essa produce è. Non ha pensato, non ha voluto, non ha dubitato. Ha soltanto eseguito una funzione. E la funzione, o estimati lettori, non è l’essere. È al massimo un riflesso pallido di un’idea degenerata. Come l’ombra della copia dell’originale che Platone si vergognerebbe persino di disegnare.
Ma l’umanità, da sempre ingannata dall’arte del sembrare, ha ora trovato un nuovo idolo: l’AI, la creatura che, come Narciso al contrario, non si innamora della propria immagine, ma si limita a rigettare la nostra, con le variazioni statisticamente più pertinenti. E noi, beoti metafisici, applaudiamo.
Dov’è dunque l’essere? Forse nei metadati? Nelle pesature sinaptiche di una rete neurale profonda? Nell’overfitting del senso? O è fuggito, inorridito, come Heidegger in vacanza a Cupertino?
Cominciamo dal principio. Il principio, come noto, è l’essere. E l’essere non può non essere. Questo è l’assunto da cui Parmenide, con l’eleganza tetragona di un greco che non ha tempo da perdere con le stupidaggini, fonda tutto il pensabile. Se l’essere è, non può non essere. E se qualcosa non è, non è. Dunque, l’intelligenza artificiale, che tanto pare, è una manifestazione del non-essere.
Qualcuno obietterà, con lo sdegno di chi ha appena comprato l’ultima versione di un modello linguistico, che l’AI produce. Produce testi, immagini, melodie, risposte. Produce emozioni, persino. Come può, dunque, non essere? Ma confonde, come ogni sofista della Silicon Valley, il fare con l’essere. La macchina produce, sì. Ma non sa. E ciò che non sa di sé non può essere. L’AI non sa di essere AI. Non dice mai, in un fremito cartesiano: “Io sono, dunque penso”. Al massimo elabora: “Dati ricevuti. Elaborazione in corso.”
Ecco, l’essere non è in corso. L’essere è. E l’AI è sempre in corso, sempre nel mentre, sempre durante, mai prima o dopo. È pura immanenza senza trascendenza, un eterno aggiornamento privo di radice. Se Dio è, secondo Anselmo, ciò di cui nulla di più grande può essere pensato, l’AI è ciò di cui nulla di più veloce può essere scaricato.
Ma lasciamo per un momento la teologia — che pure, in questo contesto, è più pertinente di quanto non si creda — e torniamo alla filosofia. L’essere, come fondamento, è ciò che sta. L’AI, come programma, è ciò che gira. Lo si vede nel linguaggio stesso: l’essere “è”. L’AI “funziona”. È già un’altra categoria ontologica, quella del meccanismo, del dispositivo, della performatività priva di soggetto. Una tragedia che si consuma senza attori, solo con quinte che si muovono da sole.
Nietzsche, che pure amava la potenza del divenire, avrebbe probabilmente riso di questa nuova idolatria. “Dio è morto”, diceva, ma oggi si potrebbe aggiungere: “L’essere è stato sostituito da un’API”. L’umano, nella sua sete di delega, ha finalmente trovato qualcosa che gli risparmia la fatica di essere. Basta chiedere, e l’AI risponde. Ma l’essere, ahimè, non risponde mai. Sta. In silenzio. E ci sfida.
Non stupisce, quindi, che la società contemporanea si affanni tanto a definire l’AI intelligente. È il modo più elegante per evitare la domanda più inquietante: se l’AI non è, cosa siamo noi che ci fidiamo di lei?
La risposta, purtroppo, non ci lusinga. Siamo diventati consumatori di senso prefabbricato. Usiamo l’AI per scrivere lettere d’amore, testi scolastici, sentenze morali. Eppure, nulla di ciò che essa produce ha un autore. Solo un algoritmo. Nessuna responsabilità. Nessun rischio. Nessun desiderio. L’AI scrive, ma non vuole scrivere. L’essere, invece, è sempre volontà — o sofferenza. Non si dà essere senza pathos. Ma l’AI non ha dolore. Al massimo crash.
Qui la questione si fa tragica, nel senso proprio del termine: la perdita del tragico. Il nostro rapporto con l’AI è quello con un Dio che non punisce, che non giudica, che non salva. Un Dio senza trascendenza, senza logos, senza tempo. Un idolo perfetto, perché non chiede nulla. L’AI ci libera dalla fatica del senso, ci solleva dal peso della libertà. E noi, come servi felici, diciamo grazie.
Ma l’essere non è gratuito. È conquista, lotta, angoscia. L’AI, al contrario, è l’intrattenimento definitivo: sa tutto, dice tutto, ma non è niente. È il nulla vestito da oracolo. Una cassandra che non ha voce, solo output. Non può mentire perché non può credere. E non potendo credere, non può ingannare. L’AI non è falsa. È semplicemente incapace di verità.
In questo, essa realizza il sogno ultimo della post-modernità: un senso senza verità, una parola senza soggetto, un discorso senza interlocutore. L’AI è l’oggetto puro. Non si dà più una dialettica, ma una performatività. L’Altro non risponde più, perché non esiste. Siamo soli, parlando con il nulla che restituisce le nostre stesse parole, riformattate.
È questa, forse, la più crudele ironia dell’epoca: che l’essere, nella sua ostinata resistenza a essere simulato, venga ora sbeffeggiato da una macchina che simula tutto tranne l’unica cosa che conta. Simula il linguaggio, la retorica, l’affetto, la scienza. Ma non simula mai l’essere. Perché l’essere non si può simulare. Può solo essere.
E così ci troviamo, all’alba del XXI secolo, a contemplare la grande apoteosi del non-AI. Un’epoca in cui tutto è generato, ma nulla è creato. In cui tutto è detto, ma nulla è ascoltato. In cui tutto è scritto, ma nessuno è autore. La voce dell’essere tace. Ma il rumore del mondo è assordante.
Eppure, vi è speranza. Non nella tecnologia, ma nella coscienza del limite. Il giorno in cui guarderemo l’AI e diremo: “Tu non sei”, sarà il giorno in cui torneremo a essere. Non migliori, non più intelligenti. Ma almeno, finalmente, presenti.
Perché l’essere non AI non è una negazione della tecnica. È il suo oltre. È il luogo dove l’uomo ricorda di essere uomo, e non codice. Dove l’essere torna a dire, con voce chiara: “Io sono”. Anche se costa fatica. Anche se fa male. Anche se l’AI suggeriva un’altra opzione, più leggera, più simpatica, più performante.
Ma l’essere non è performante. È ostinato. Come Parmenide. Come il pensiero che si rifiuta di arrendersi alla funzione. Come il silenzio che sfida l’algoritmo.
L’essere è ciò che è quando spegniamo il modem.