
C’è un momento preciso, in ogni partita dell’Udinese, in cui il tifoso friulano sente arrivare la rassegnazione. Non è paura, non è rabbia: è una forma superiore di consapevolezza. È un po’ come quando ti si rompe la zappa mentre stai vangando l’orto: non ti arrabbi, perché tanto lo sapevi che prima o poi sarebbe successo, cancelli santi dal calendario per tradizione non per rabbia.
Ecco, Juventus-Udinese è andata così. Fino all’uscita di Zaniolo, i bianconeri (quelli veri, non i surrogati di Torino) avevano persino illuso. Poi il destino ha bussato alla porta, e noi, come sempre, abbiamo risposto: “Avanti, entrate pure, fate come se foste a casa vostra”.
Un primo tempo da “quasi ci siamo”.
L’Udinese inizia con l’atteggiamento di chi non ha nulla da perdere e, soprattutto, nulla da perdere perché non ha ancora avuto tempo di versarsi un tajut, che Goglichidze atterra Vlahovic in area di rigore (con annesso cartellino giallo). L’Halland meno veloce trasforma con freddezza, nel senso che ogni tifoso friulano inizia a rabbrividire, temendo una storica imbarcata. Invece sì inizia a fare pressing alto, a fare girare e tenere la palla. La vecchia signora tenta qualche sortita offensiva, da vera provinciale, ma i nostri dimostrano una insperata compattezza difensiva, che dura quanto un bicchiere di Tocai sotto il sole di agosto.
La Juve palleggia, sbuffa, prova a imporsi, segna -per fortuna su azione viziata da fuorigioco- ma trova davanti a sé un muro friulano guidato da un Okoye in versione San Mauro da Amsterdam. Il portiere nigeriano-olandese para tutto: tiri, deviazioni, sospiri, perfino le speranze juventine.
In curva, qualcuno inizia a credere che forse, stavolta, non finisce male. Illusione, certo, ma di quelle belle, come il profumo del frico quando torni a casa tardi. Presto, purtroppo, Davis lascia il posto (causa infortunio) al mistero polacco che risponde al nome di Buksa. Poi d’un tratto, inaspettata come la pattuglia sulla curva dopo la serata in frasca, arriva una palla dentro l’area dei torinesi. Un batti e ribatti senza logica, almeno finché la sfera non capita fra i piedi dell’unico con quoziente neuronale degno della massima serie. Così Zaniolo, con un colpo da biliardo, ci riporta in parità a tempo ormai scaduto. Come premio, Kosta lo richiama in panchina a inizio secondo tempo. Dalla sua uscita, in favore di Bayo, la partita diventa un inno all’eroismo inutile. Okoye si esibisce in una collezione di parate che neanche Yashin nei sogni più nostalgici. Gli attaccanti della Juve provano a superarlo in tutti i modi, ma lui sembra avere un conto aperto con la fisica: scatti felini, riflessi da videogame, un guantone dove serve e quando serve.
Più che “in stato di grazia”, in pieno “delirio da saracinesca”
Nel frattempo, i nostri non riescono a tenere un pallone, stanno ordinatina linee strette ma decisamente troppo bassi. Kamara corre come se avesse l’abbonamento alle autostrade del pallone ma dimenticasse sempre dove uscire. Kallstrom lotta, combatte, e ogni tanto tocca anche la palla. Atta danza, ma spesso da solo, come non sapesse esattamente con chi giocare.
Insomma, si soffre, ma si resiste. Il tifoso friulano comincia a fare calcoli mentali: “Se finisse 1-1, sarebbe un punto d’oro. Magari con un contropiede al 90’… chissà”.
Ah, l’ingenuità, quella dolce condanna che ci fa credere che il destino possa anche cambiare idea.
L’ingresso di Lovric per Atta: l’inizio della fine dichiarato negli intenti.
Poi succede. La partita cambia.
Non perché Atta stesse combinando “alc” ma perché l’universo friulano ha un suo equilibrio. È come se la squadra capisse che la trama sta prendendo una piega già scritta.
Da lì in poi, l’Udinese comincia a perdere metri, lucidità, convinzione. I passaggi diventano timidi, le gambe pesano, e Okoye continua il suo pellegrinaggio mistico fra i pali, parando anche l’imparabile.
È il momento in cui i pochi friulani in tribuna smettono di esultare e cominciano a guardare l’orologio. “Ancora mezz’ora… magari reggiamo…”
Ma il pallone, si sa, ha un senso dell’umorismo tutto suo.
E arriva lui, Federico Gatti, difensore con l’anima da bomber della domenica. Dopo che Okoye ha sventato prodezze da Champions, il destino decide che il colpo di grazia deve essere banale.
Cross sul secondo palo, Gatti salta, impatta di testa.
La palla va lenta, quasi dolce sul primo palo, un colpetto timido, un “ciao” sussurrato al pallone.
Okoye, fino a quel momento divino, rimane immobile per un battito di ciglia, forse convinto che la palla debba andare sui suoi guantoni e non il contrario. E invece no: gol.
Lo Juventus Stadium esplode e noi friulani abbiamo quella tipica reazione stoica: un sospiro, un “eh vabbè”, e il bicchiere che si riempie ma pare sempre mezzo vuoto.
Perché sì, lo sapevamo.
Dopo tutti quei miracoli, non poteva che arrivare un gol del genere. Il più facile, il più ingiusto, il più Udinese possibile.
Il resto è cronaca (ma anche un po’ tragedia)
Dopo il vantaggio, la Juve si rilassa e l’Udinese, invece, entra in quella fase mistica del “non abbiamo più nulla da perdere ma perderemo comunque qualcosa”. Bayo sfiora il pareggio con un bel colpo di testa. Goglichidze decide però di finire da dove aveva iniziato. Fallo in area su Yldiz (lesto nell’anticipare il georgiano) che trasforma dal dischetto a tempo ormai scaduto.
Ormai la partita è andata.
L’arbitro fischia la fine, e Okoye, che per un’ora aveva sfidato la logica, si ritrova a guardare il tabellone: 3-1.
La vita del portiere è questa: passi da santo a peccatore in mezzo secondo, e il colpo di testa di Gatti diventa la tua croce personale.
Moralina friulana (per chi vuole leggerla)
A noi, tifosi dell’Udinese, queste partite insegnano più della vita stessa.
Impari che la perfezione non basta, che il destino è un tipo che ama scherzare, e che se un giorno ti senti imbattibile, è solo perché non è ancora arrivato un colpo di testa.
Impari che l’ironia è una difesa, che il sarcasmo è una forma d’amore, e che in fondo, anche perdere così, con dignità e fatalismo, è un’arte che pochi sanno praticare.
Perché noi, friulani, non ci arrabbiamo mai del tutto. Ci limitiamo a dire: “bon, dai”.
E il giorno dopo torniamo allo stadio, con la stessa speranza ingenua di sempre, pronti a soffrire di nuovo, con un sorriso amaro e una birra che ci aspetta nel dopo partita.
Post Scriptum: la vera notizia è che entrambi i rigori erano validi. Non capita spesso.
Ringraziamo Okoye perché ci ha fatto credere per un’ora che si potesse fermare la Juve.
Perché ha volato, urlato, salvato l’impossibile.
E perché, quando è arrivato quel colpo di testa molle e beffardo, non c’è stato nessuno che gli abbia urlato contro.
Solo silenzio, rispetto, e una certezza profonda: se c’è un modo per perdere con stile, l’Udinese lo trova quasi sempre.
E così, anche stavolta, con grazia.
Con ironia.
Con quell’inconfondibile sapore di “quasi”, che solo noi sappiamo rendere nobile.
Ma anche con troppe poche idee…


