
La politica italiana oggi sembra una partita di calcetto del giovedì sera, di quelle in cui nessuno ha voglia di correre ma tutti gridano di avere la strategia migliore, come se il destino del mondo dipendesse da chi segna per primo al bar della periferia. Abbiamo il bomber di giornata, quello che si presenta con la maglia di Ronaldo ma con la pancia da piadine e spritz, convinto di essere il salvatore della squadra, e poi c’è quello che corre come un pazzo senza mai toccare palla, ma che alla fine urla più di tutti perché “ha fatto il lavoro sporco”. In mezzo a questo campetto spelacchiato, con le linee disegnate male e la rete della porta rotta da anni, ci sono loro: i politici italiani, che invece di discutere di idee preferiscono litigare su chi deve fare il portiere, perché nessuno vuole prendere i gol. E allora si inizia con la solita scena: “Io non gioco in porta”, “Ma io ho già fatto il portiere la scorsa settimana”, “Se non mettiamo uno in porta ci segnano subito”. Intanto gli elettori, cioè noi, siamo lì ai lati del campo, seduti sulle sedie di plastica a bordo campo, a fare il tifo come ultrà di paese, pronti a gridare “Vai, spaccagli le gambe!” anche se il pallone non l’ha ancora toccato nessuno. Non c’è spazio per il pensiero critico, perché a bordo campo non interessa la tattica, interessa solo chi urla più forte, chi fa più scena, chi fa il tunnel all’avversario e chi inciampa da solo ma si rialza con la faccia di chi ha compiuto un miracolo.
Ogni tanto arriva l’arbitro, che di solito è uno del bar che ha deciso di “dare una mano” ma che non ha mai capito bene le regole. Fischia a caso, annulla gol buoni e convalida autogol clamorosi. E così la partita diventa una disputa continua tra giocatori che urlano “rigore!” per qualsiasi cosa, anche se il pallone è finito nel parcheggio. I tifosi-elettori, da parte loro, non ragionano più: basta che il loro idolo di turno faccia una scivolata epica per gridare “Visto che fenomeno?!” anche se ha solo spaccato il ginocchio all’amico. Poi c’è il capitano, quello che pensa di comandare la squadra come fosse la finale di Champions, ma in realtà sta solo urlando “Passa! Passa! Passa!” senza guardare nessuno, perché lui vuole sempre la palla. Lo stesso succede in politica: c’è chi si prende i meriti di tutto, anche di un autogol, e chi invece fa il pesce morto a centrocampo, aspettando che la palla finisca per caso nei piedi giusti, così da dire “L’avevo prevista questa giocata”.
Il pubblico a bordo campo è diviso in due fazioni: quelli che bevono la birra e applaudono anche quando il proprio giocatore cade da solo, e quelli che stanno lì con la faccia seria, convinti di capirne di tattica perché hanno giocato a calcetto al liceo. Gli elettori in Italia sono un po’ così: invece di chiedersi perché la squadra non segna da mesi, continuano a difendere a spada tratta il loro campione, anche se questo campione non ha mai centrato la porta in vita sua. Quando qualcuno osa dire “Ma forse dovremmo cambiare schema”, si scatena l’inferno: “Ma cosa dici? Lui è il migliore! Hai visto l’altra sera come ha parlato?” – “Parlato? Ma se ha fatto un autogol al microfono!”. Niente, siamo ormai ridotti a tifare, non a ragionare. Siamo come quelli che esultano perché il proprio giocatore ha litigato con l’arbitro, come se urlare bastasse a vincere la partita.
Nel frattempo, nello spogliatoio, la situazione è ancora peggiore. Dopo ogni partita, invece di discutere di schemi e allenamenti, i politici-giocatori iniziano le risse da bar: chi non ha passato la palla a chi, chi si è preso troppo spazio, chi ha fatto la foto con la maglietta sudata per far vedere di essere il vero leader. Si lanciano asciugamani bagnati, qualcuno tira fuori la scusa che “il campo era bagnato”, qualcun altro se la prende con l’arbitro, e intanto nessuno pensa a fare un piano per la prossima partita. È sempre colpa di qualcun altro, mai di chi ha sbagliato un rigore a porta vuota. Eppure, quando arriva il giovedì successivo, eccoli di nuovo lì, tutti pronti a rimettere i parastinchi, convinti che questa volta “sarà la svolta”. Nel frattempo, noi elettori-tifosi siamo tornati sugli spalti, pronti a gridare slogan e cori da stadio, senza renderci conto che la squadra non gioca mai per vincere, ma solo per farsi vedere.
Ogni tanto si forma anche il classico “gruppo Whatsapp” della squadra, che in politica corrisponde ai mille talk show e alle chat di partito: una farsa continua di messaggi vocali pieni di paroloni, di selfie davanti allo specchio della palestra e di scuse per non allenarsi. Qualcuno scrive “Dobbiamo parlare di strategie”, ma subito parte la discussione su chi porta le birre al terzo tempo. E così finisce che, al posto di allenarsi o studiare schemi, passano le giornate a farsi i complimenti per il nuovo completino o a insultare quello che ha osato cambiare squadra. Tutto, tranne parlare di gioco vero. In politica è lo stesso: si vive di comunicati stampa e di post sui social, come se bastasse una foto con la maglia nuova per convincere il pubblico che “stavolta vinciamo”.
Poi ci sono i tifosi speciali, quelli che non solo gridano, ma vogliono anche insegnare la tattica: “Se avessi giocato io, avrei segnato!”, dicono quelli che non sanno neanche fare tre palleggi. In Italia, ognuno si sente commissario tecnico, ognuno sa cosa bisognerebbe fare per “salvare il Paese”, ma quando gli chiedi di entrare in campo si tirano tutti indietro: “No, io sono impegnato”, “Ho male al ginocchio”, “Sai, io sono più da panchina”. Allora restano lì, a urlare e a lanciare opinioni come lattine vuote, senza accorgersi che la partita va avanti e loro non hanno mosso un dito.
Il momento clou arriva sempre quando uno dei giocatori decide di fare il fenomeno e parte in dribbling, convinto di essere Maradona, ma poi perde palla e si butta a terra gridando “Fallo!”. In politica succede lo stesso: ogni tanto qualcuno tenta una mossa geniale, un “colpo di teatro”, ma finisce a faccia in giù mentre gli altri ridono. Gli elettori, invece di chiedersi “Ma che sta succedendo?”, si dividono: “Grande, almeno ci ha provato!” contro “Incapace, si è fatto male da solo”. Nessuno che guardi il tabellone per vedere quanti gol sono stati fatti: zero.
E poi ci sono le risse. Quelle vere. Come quando la partita finisce 7 a 6, con mille polemiche su chi ha segnato e chi no, e tutti corrono negli spogliatoi per urlarsi addosso. Volano bottigliette, qualcuno rovescia lo shampoo, altri si accusano di non aver corso abbastanza. In politica è un eterno dopo-partita: ogni giorno c’è qualcuno che va in TV a dire “Lui non ha giocato bene”, “Non mi ha passato la palla”, “Io meritavo di più”. Non esiste una squadra, esistono solo solisti che vogliono prendersi la foto con il trofeo, anche se il trofeo è una bottiglia di birra presa al bar.
Il VAR, poi, è un capitolo a parte. Nel nostro calcetto italiano, il VAR non è un sistema tecnologico, ma il barista con la GoPro montata sulla mensola delle patatine. Ogni volta che c’è un fallo dubbio, i giocatori corrono al bancone per riguardare la registrazione mentre il barista, con calma olimpica, fa partire il video tra un panino con la mortadella e un caffè macchiato. “Sembra fallo, ma non si vede bene”, dice, mentre i giocatori litigano sullo schermo minuscolo, convinti che il destino della partita dipenda da un frame sfocato. Alla fine, come in politica, non si arriva mai a una decisione chiara: qualcuno urla “È evidente!”, qualcun altro “Non è successo niente!” e intanto la partita è già ricominciata con qualcuno che tira un calcione a caso.
E poi ci sono i mercati. Non i mercati economici, ma le aste tra squadre: “Ti do due birre e un pacchetto di patatine se mi lasci quel giocatore per la prossima partita”. I partiti politici sono uguali: si scambiano i giocatori come figurine Panini, promettono posti in squadra, fasce da capitano, persino il colore delle magliette, pur di avere qualcuno che corra almeno un po’. Il problema è che questi scambi non portano mai a un gioco migliore: cambiano le facce, ma la tattica è sempre la stessa – cioè nessuna.
C’è anche l’infortunio del leader carismatico. Quello che fino al giorno prima era l’eroe del campo, sempre pronto a fare il gol decisivo, improvvisamente scivola e si rompe il ginocchio. Non solo non gioca più, ma tutti iniziano a chiedersi se sia mai stato davvero così forte. Alcuni tifosi lo difendono: “Era il migliore, è solo sfortuna!”; altri lo abbandonano senza pietà: “Era solo fumo negli occhi, non ha mai fatto niente”. In politica succede lo stesso: i leader, quando cadono, vengono abbandonati come scarpe vecchie, sostituiti in fretta da un nuovo “campione” che promette di segnare al primo tocco, salvo poi sbagliare porta.
E intanto noi siamo ancora lì, sugli spalti, con le mani fredde e la voce roca, a sperare che questa volta qualcuno riesca davvero a mettere la palla in rete. Ma dentro di noi sappiamo che la partita finirà come sempre: con una birra al bar, due risate, una discussione sul rigore non dato e la promessa che “giovedì prossimo vinciamo di sicuro”. E così la politica italiana continua a essere una partita di calcetto dove tutti parlano, pochi giocano e nessuno segna davvero.
Fabrizio Colombo