
Una storia dell’economia raccontata da Epicuro, Marx e Zio Paperone”di un anonimo doganiere Pentito Se mai un giorno l’umanità dovesse essere giudicata da una razza aliena superiore, probabilmente troverebbero due elementi degni di nota nella nostra civilizzazione: il Wi-Fi gratuito e i dazi. Il primo ha un senso, il secondo molto meno. I dazi – quei balzelli imposti sulle merci straniere – sono il modo in cui le nazioni affermano la propria identità, proprio come i galletti da campanile, ma con più Excel e meno vento.I dazi nell’antichità: ovvero “paghi o ti appendiamo il grano”In principio era il baratto. Poi arrivò l’Impero Romano e con esso la brillante idea di far pagare i popoli conquistati non solo con il sangue ma anche con le tasse doganali. Gli egizi, da bravi pre-keynesiani inconsapevoli, già imponevano tributi sulle carovane. Già allora il concetto era chiaro: “Se non puoi farlo tu, tassalo”.I dazi erano la versione economica del “non puoi giocare con il mio pallone”. Proteggere il proprio mercato significava impedire al vicino di vendere stoffe migliori, grano più buono o schiavi più muscolosi. Altro che concorrenza.Ma almeno funzionavano?Più o meno come le diete a base di patatine fritte. Funzionano per un po’, poi ti ritrovi con un impero obeso di inefficienze e con gli unni alle porte. L’idea era semplice: bloccare l’esterno per rendere più forti gli interni. Il risultato: un’economia asfittica e un artigianato che inizia a vendere sandali a prezzi da boutique veneziana.Mercantilismo: o dell’avidità travestita da strategiaNel XVII secolo, il mondo scoprì il mercantilismo, cioè l’idea geniale che più oro avessi in cassa, più felice sarebbe stato il re. Jean-Baptiste Colbert, ministro di Luigi XIV, alzava dazi come se stesse costruendo una piramide di protezionismo. Il sogno era chiaro: vendere tutto, comprare nulla, come lo zio tirchio al cenone di Natale.Fu allora che l’umanità scoprì che i dazi facevano molto comodo… finché qualcuno non rispondeva con dazi più alti. E così via, in una guerra economica che fece impallidire quella dei Cent’Anni, con l’unica differenza che invece di spade si usavano tariffe.Adam Smith, che a suo tempo si sentiva rivoluzionario quanto un punk con la parrucca, scriveva nel suo “La ricchezza delle nazioni” che “la divisione del lavoro è limitata dall’estensione del mercato”, e che i dazi erano come chiudere le finestre perché fuori c’è troppa luce.XIX secolo: liberismo, colonialismo e altre belle idee da salottoCon il progresso arrivò l’Illuminismo, il vapore e il pensiero economico moderno. I dazi vennero visti come roba da contadini impauriti. L’Inghilterra, padrona dei mari e delle fabbriche, predicava il libero scambio mentre imponeva il tè e l’oppio a mezzo mondo.Chi non voleva comprare i suoi tessuti? Semplice: bombardamento navale. Ecco il libero mercato all’inglese.Intanto, un tale di nome Karl Marx, che sicuramente non veniva invitato alle feste della Camera di Commercio, osservava che i dazi erano solo un modo per i capitalisti di mantenere la propria quota di profitti nazionali, fregandosene della classe operaia. Per Marx, i dazi erano l’ennesimo trucco per ritardare l’inevitabile crollo del sistema. Più o meno come bere caffè per non dormire: funziona finché ti scoppia il cuore.XX secolo: la tariffa Smoot-Hawley, ovvero “facciamoci male da soli”Nel 1930, in piena crisi, gli Stati Uniti approvarono la tariffa Smoot-Hawley, alzando i dazi su oltre 20.000 prodotti. La risposta del mondo fu l’equivalente economico di un gigantesco dito medio. Il commercio internazionale crollò, la disoccupazione salì, e l’economia globale affondò più in fretta del Titanic.Il premio Nobel Paul Krugman ha osservato che, storicamente, il protezionismo non ha mai portato a uno sviluppo sostenibile, se non nel breve periodo e solo per settori già agonizzanti. Eppure, come ogni idea fallimentare, i dazi ritornano periodicamente, come gli zatteroni o i revival anni ‘90.Dazi oggi: globalizzazione selettiva e altri ossimori moderniNel XXI secolo, i dazi sono il modo in cui i governi fingono di avere ancora controllo sull’economia. Come i genitori che tolgono il Wi-Fi quando i figli vanno male a scuola, sperando che imparino la trigonometria per osmosi.Con Trump, i dazi tornarono di moda come i ciuffi biondi. L’idea era: “America First”, ma il risultato è stato “Prezzi alti First, Second e Third”. La guerra commerciale con la Cina ha danneggiato più le aziende americane che quelle cinesi, mentre i consumatori scoprivano che un iPhone prodotto in Ohio costava quanto un’automobile tedesca.Futuro dei dazi: ritorno al baratto o filosofia dell’assurdo?Se vogliamo proiettarci nel futuro, dobbiamo farlo con l’aiuto di Albert Camus. Secondo lui, l’assurdo nasce dal conflitto tra il bisogno umano di senso e l’irrazionalità del mondo. Ecco, i dazi incarnano perfettamente questa tensione: sono strumenti razionali usati in modo emotivo, per soddisfare l’illusione che il “noi” possa vincere contro il “loro” grazie a una tassa sul Parmigiano.Oppure, citando Epicuro, potremmo dire che “nulla è sufficiente per chi considera poco ciò che è sufficiente”, e quindi i dazi sono solo il sintomo di un’invidia economica malcelata, un modo per punire chi fa le cose meglio di noi.Conclusione: un mondo con i dazi è come un amore non corrispostoProtezionismo e globalizzazione sono come due ex fidanzati gelosi: non riescono a stare insieme, ma nemmeno separati. Il libero scambio è imperfetto, certo, ma i dazi sono la negazione della complessità. Sono la scorciatoia del politico che non sa spiegare perché un settore è in crisi, e quindi punta il dito verso un container cinese.Come diceva Keynes, “nel lungo periodo saremo tutti morti”. Ma grazie ai dazi, potremmo riuscirci anche prima.Dazi nel futuro: scenari tra distopia economica, rinascita agricola e fiere del vinileIl futuro, si sa, è un luogo mitologico dove tutto dovrebbe andare meglio. Peccato che l’unico vero oracolo rimasto, il Fondo Monetario Internazionale, predica da trent’anni la crescita globale mentre le banche centrali fanno slalom tra le recessioni come Tomba alle Olimpiadi. Ma proviamo a fare un gioco pericoloso: immaginiamo un mondo dominato dai dazi.Scenario 1: Il Rinascimento dell’orto dietro casa (e l’autarchia 2.0)In questo brillante futuro distopico, ogni nazione decide di chiudersi a riccio. I dazi salgono, le frontiere si stringono e ogni cittadino diventa, per forza di cose, un esperto agricoltore, filatore, artigiano e probabilmente anche barbiere.Le automobili tornano ad avere la leva dell’aria e il cambio a manovella. Il prosciutto spagnolo sparisce, ma in compenso si riscoprono i salumi locali della Val Trompia. Il formaggio francese è bandito, ma il “caciottone nazionale protetto” viene celebrato come simbolo di identità.Il mondo diventa un patchwork di autonomie produttive folkloristiche, come se ogni paese si convincesse che basta saper fare il pane per sfidare l’Asia nella microelettronica.Nel frattempo, l’industria mondiale si spezza in microsistemi inefficienti, dove ogni Paese si arrangia con i propri limiti: la Germania stampa i microchip su carta da forno, l’Italia reinventa la vespa a vapore, e gli Stati Uniti riescono finalmente a produrre avocado in Wyoming (a 28 dollari al pezzo, grazie a sussidi federali).Scenario 2: L’epoca del “dazio buono” e della finta sostenibilitàNon mancherà l’ipocrisia travestita da coscienza green. Alcuni dazi verranno chiamati “eco-tariffe”, giustificati con motivazioni ecologiche: “Se arriva da lontano, inquina. Quindi lo tassiamo. Ma solo se non lo produciamo anche noi, ovviamente”.Il nuovo protezionismo parlerà la lingua del marketing: i dazi sul caffè saranno per “promuovere le tisane locali”, quelli sulla soia per “valorizzare le leguminose patriottiche”. La quinoa sarà un crimine internazionale. Le fiere agroalimentari diventeranno eventi pseudo-spirituali, dove si scambiano cavoli per algoritmi, e ogni regione fingerà di essere autosufficiente mentre importa semi sotto banco via Svizzera.Scenario 3: La Guerra Commerciale Totale (ma con PowerPoint)Il peggior scenario – e anche il più probabile – è che i dazi diventino strumenti diplomatici permanenti. Non più guerre, ma presentazioni in PowerPoint all’ONU su chi ha tassato più acciaio o chi ha bloccato più navi cargo nel porto di Gioia Tauro.La diplomazia globale sarà un misto tra il risiko e il Monopoly, con Paesi che useranno i dazi per tutto: punire i vicini scomodi,difendere “lavori che non esistono più” e vendere fumo elettorale (letteralmente, nel caso delle sigarette extra-UE)Le conseguenze? Un aumento generalizzato dei prezzi, la fine delle economie di scala, e il ritorno di concetti meravigliosi come la “sostituzione forzata delle importazioni”, che negli anni ‘60 faceva brillare gli occhi a certi economisti sudamericani, giusto prima dell’iperinflazione.Ma c’è speranza? (spoiler: sì, ma è canadese)La salvezza potrebbe arrivare da Paesi “neutrali”, come il Canada, che diventano improvvisamente le Svizzere della globalizzazione: non producono niente di troppo cruciale, ma sono talmente educati che tutti si fidano a commerciare attraverso di loro. Nascerebbero così hub doganali neutri, nuove Hong Kong doganali sparse tra Alberta e il Liechtenstein, dove le merci cambiano bandiera per eludere i dazi con la grazia di un diplomatico postmoderno.Nel frattempo, qualche illuminato, magari un giovane economista cresciuto leggendo Seneca e smanettando su TikTok, inizierà a dire: “Ragazzi, forse questa cosa dei dazi non funziona”. E verrà ignorato, ovviamente, almeno fino al prossimo collasso del PIL mondiale.Epilogo: i dazi come test psicologico di massaA ben vedere, i dazi sono il Test di Rorschach della politica economica: ognuno ci vede quello che vuole. I sovranisti li chiamano orgoglio, i progressisti li chiamano sostenibilità, i liberisti li chiamano eresia. E in mezzo ci siamo noi, consumatori stanchi, che vorremmo solo un caffè decente senza dover ipotecare un rene.Forse i dazi, come il filosofo Diogene, non sono davvero interessati a cambiare il mondo, ma solo a mostrarci quanto siamo incoerenti, quanto temiamo il cambiamento e quanto ci piace farci del male col sorriso sulle labbra, finché non arriverà la bolletta.
F.Colombo