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La Tempesta di De Fusco

Fabrizio Colombo 1 Febbraio 2020
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La tempesta ci lascia asciutti

De Fusco sceglie di reinterpretare la Tempesta di Shakespeare in modo coraggioso. Tutto ruota attorno al “Siamo fatti della stessa materia dei sogni” e accade di conseguenza, come frutto del pensare deviato dalla solitudine dell’esilio a cui Prospero è costretto. Dall’interno di una possente biblioteca che è tempio del sapere e luogo surreale, il protagonista crea i personaggi, libera le proprie pulsioni terrene (Calibano) e nobili (Ariel) e le tiene a bada grazie alla sua temperanza.

Tutto diventa o vorrebbe diventare psicodramma ma l’impressione è che il regista si perda per strada e nasconda la polvere sotto il tappeto cercando disperatamente il consenso del pubblico.

Lo fa attraverso proiezioni continue sulle pareti del bibliomanicomio, da Balthus a Chagall, passando per Machiavelli.

Facendo comparire una Giunone-Monroe, oppure omaggiando il teatro comico napoletano, con la musica neomelodica e in poche parole, con il troppo che stroppia. Ci si perde nella sequenza di eventi sospesi nell’isola che non c’è, Fra nobili intenzioni (e intuizioni) e una tempesta creativa e incontrollata.

Gaia Aprea ci delizia nella doppia veste di Ariel e Calibano, recitando con una maschera (il volto di Prospero?) e modulando voci e movenze perfettamente calzanti ai personaggi.

Pagani è il vero mattatore e alla fine, quando sulla scena resta solo lui illuminato da un occhio di bue e tutto svanisce, quando restano solo i versi sublimi del bardo, decantati dalla sua voce calda, finalmente la tempesta ci fa tremare le ginocchia.

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